Negli anni ’20 -’30 H.S. Sullivan, noto psichiatra americano, inizia a pensare che l’orizzonte della mente è fatto anche di interiorizzazioni di relazioni, non solo di pulsioni interne. La struttura della mente nasce dalla relazione, come la teoria dell’attaccamento di Bowlby ben mette in evidenza. Il mondo interno di una persona è il risultato dell’interiorizzazione di relazioni vissute.
Si passa così dall’analisi oggettiva e distaccata del soggetto (mente/paziente) all’analisi del campo relazionale, quello formato dall’incontro del paziente e dell’analista. L’obiettivo di questa psicoanalisi è cercare di entrare in contatto con le parti emotive (anche e soprattutto inconsce) attive nella relazione terapeutica e promuovere nel paziente esperienze nuove, non sperimentate in altre situazioni.
Se il concetto di guarigione (più prossimo alla medicina) si ricollega ad un ritorno ad uno stadio precedente a quello della malattia, quello di cambiamento (che interessa a questo tipo di psicoterapia) presuppone il raggiungimento di uno stadio successivo. La soluzione del problema o del disagio manifestato della persona non deve essere a priori nella mente dell’analista. Deve essere il paziente a trovare i suoi significati, quelli necessari per il suo cambiamento. Il processo di internalizzazione , necessario per attivare il cambiamento desiderato, prevede allora per il paziente la possibilità di inglobare parti dell’esperienza relazionale vissuta in terapia e la possibilità di ricomporle poi secondo un processo proprio. E’ nel confronto con l’altro che ci si può modificare ed è la possibilità di fare esperienze di sé alternative all’interno di una relazione stabile, ad essere considerata come determinante. E’ la messa in crisi dei modelli organizzativi interni del paziente in un ambiente sicuro che produce in lui novità e cambiamento.
Nell’approccio relazionale la relazione determina la mente, ma anche la cura. Il processo terapeutico, che si configura come cura, diviene allora un processo intersoggettivo in cui riuscire a trovare la significazione di esperienze esclusive. La risposta internalizzata dell’ambiente umano non è infatti qualcosa di cristallizzato una volta per tutte, ed è sempre in essere una continua ricerca di riscrittura della scena iniziale. Questo significa che il cambiamento in una persona, seppur doloroso e difficile da promuovere, è pur sempre una realtà possibile e sperimentabile.
Non si tratta più di promuovere pedagogismi attraverso una psicoanalisi che è una “seconda educazione” come progressivo adattamento alla realtà. Non si ricerca più l’oggettività, ma un’esperienza soggettiva e condivisa. Quello che l’analista interpersonale deve fare è cercare di ampliare il campo dei significati possibili di ogni esperienza condivisa con il paziente e lasciare che sia poi il soggetto stesso a “scrivere le proprie storie”.
La relazione terapeutica si configura simbolicamente come un utero nuovo dove è possibile sperimentare una nuova esperienza. Se è vero che le relazioni possono farci ammalare è pur vero che sono quelle che possono curarci: è questo il potere trasformativo dell’incontro con l’Altro, promosso dalla psicoterapia analitica interpersonale.
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